Credo che sia difficile per tutti separare il celebre romanzo di Thomas Mann dal film che Luchino Visconti ne ricavò a suo tempo, con un protagonista d’eccezione come Dirk Bogarde. Ma negli stessi anni in cui Visconti confezionava il suo capolavoro, un altro artista non meno importante, il compositore inglese Benjamin Britten, trasfigurava la sua malattia e i suoi ultimi giorni sulla Terra tramite le pagine di Mann, in una specie di immedesimazione musicale di cui lo spettacolo andato in scena al Teatro alla Scala restituisce tutti i colori, le intensità sonore e lo spirito visionario.
Morte a Venezia è, in effetti, un romanzo ricco di stati allucinatori, di visioni di bellezza perdute. Come notava di recente lo studioso Massimo Fusillo, tutti gli incontri di Aschenbach sono appuntamenti con i fantasmi, possiedono sempre qualcosa di inquietante che crea una distanza mortale: “Le figure incontrate da von Aschenbach sono accomunate da una serie di costanti: il volto perturbante, il carattere di estraneità, l’atteggiamento di dominio, verso il quale Aschenbach si abbandona a una passività masochistica” (da Il dio ibrido, edizione Il Mulino). E’ probabile che il carattere allucinatorio del romanzo di Mann abbia influenzato sia la musica di Britten che le coreografie (sì, c’è anche la danza) di Kim Brandstrup, perché l’impressione che si ricava dalla loro messa in scena sembra davvero dialogare in armonia perfetta con il lavoro registico di Visconti, a distanza di anni mai dimenticato, esaltando però i momenti- e non sono pochi- in cui la musica può rimandare all’altrove, all’infinito in un modo che soltanto l’acustica di un teatro e la scrittura musicale concepita per l’opera possono produrre…La coesione delle parti, così importante nell’arte, in questo caso mi sembra più efficace. Insomma, per quanto il famoso Adagio di Mahler (nel film di Visconti) sia pertinente ai temi trattati, alla psicologia dei personaggi, in particolar modo alle scene dove appare Tadzio, bisogna ammettere che Britten è andato molto vicino a una fusione perfetta con il testamento di Mann…Li ritroviamo insieme in un luogo sospeso ma reale, vivente, come il teatro dove il testo è il punto di partenza del lavoro del musicista, al di là delle esigenze espressive di una colonna sonora. Il teatro che fa un passo oltre il cinema? Strano ma possibile.
Per questa messa in scena non ci sono stati che commenti positivi, un po’ da tutte le parti, anche se la malattia del tenore, Ian Bostridge, annunciava qualche problema. Invece no, è stata un’ovazione generale, e credo che la regista Deborah Warner abbia di che essere fiera di questo suo parto scaligero, oltre che post viscontiano…Chissà, poterlo rivedere a Venezia, magari, non sarebbe male.
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