domenica 10 aprile 2011

Death in Venice - Del Teatro

L'eclettismo intelligente e vorace di Benjamin Britten, ma totalmente ancorato al sistema tonale, quindi ben lontano dai rigorismi formali della dodecafonia, è forse l'origine della scarsa considerazione che la critica italiana del Novecento ha avuto nei suoi riguardi; e di conseguenza nei teatri italiani le sue tante opere (17) sono davvero state poco rappresentate, soprattutto nel suo massimo "tempio" lirico di Milano: Peter Grimes, certamente nel 1976, anche ripetuto, un casuale Albert Herring alla Piccola Scala nel 1979 (in italiano, tradotto da Cozzi e Patanè), poi, credo quasi più nulla. Si pensi che questo capolavoro, Death in Venice, presentato alla Fenice di Venezia nel settembre del 1973, anno della sua composizione, giunge soltanto oggi per la prima volta alla Scala.

Quindi onore a Lissner e ai tanti suoi meriti (che oggi si tenta di contestare). Colgo l'occasione anche per omaggiare Bruno Bartoletti, uno degli interpreti italiani di Britten più fedeli e capaci da sempre, e ricordarne la splendida direzione di questa opera al teatro Carlo Felice di Genova nel 1999, con scene e regia di Pierluigi Pizzi, riprese poi nella stagione invernale del 2001/2, grazie all'acume di Cesare Mazzonis, nel teatro del Maggio Musicale fiorentino.

È storia nota, Britten e il suo compagno di vita, il tenore Peter Pears, pensavano da tempo alla fine degli anni Sessanta di mettere in scena il celebre romanzo che Thomas Mann aveva scritto nel 1912 (lui, comunque, trentasettenne) La morte a Venezia, adombrante il conflitto tra arte e vita, tra ragione e senso, tra regole morali e libertà degli istinti, tutto in chiave di lettura decadentistica. Nello stesso tempo però un compositore vicino ai sessant'anni (morirà a 63) e un regista che gli ha superati da quattro, Luchino Visconti, pensano allo stesso soggetto. Visconti esce per primo col suo film, nel 1971; Britten, per problemi di diritti, ma anche per motivi di salute, termina l'opera nel 1973. Non vorrà mai vedere il film, seccato che si potesse pensare a qualche influenza. Ma se accostiamo il film di Visconti all'opera di Britten il motivo non è solo perché nascono dallo stesso soggetto, ma perché, rispetto al romanzo e alla sua congelata omoerotia - che traveste letterariamente e lecitamente un indirizzo in una conflittualità tra arte e vita in tutte le sfaccettature che si vogliano annettere, inclusa la ben nota ipocrisia di Mann - un'identica condizione vi è sottesa, anche se primaria (mentre nel romanzo le istanze appaiono più puritane, più repressive compreso un vagheggiante senso di colpa) quella della vecchiaia, della morte e di un desiderio che non può trovare appagamento veruno se non nella morte.

Se Visconti, dimesso l'"ideologia realista" si getta del tutto in una magnifica e, diciamo pure anche un po' Kitstch, realizzazione di alto manierismo e decadentismo, e riveste il suo Aschenbach di suoni acconci, Mahler soprattutto e Bruckner, obliando il futuro Leverkühn (Doktor Faust), l'operazione di Britten è più personale, meno legata ai riferimenti culturali dell'epoca, nonostante che lui si sia sempre servito di testi e di autori letterarissimi, basti pensare a James (Giro di vite) o a Melville (Billy Budd), il cui librettista, ricordo, era Auden. Aiutato dalla fedele Myfanwy Piper, ricava dal breve romanzo manniano, un libretto in due atti; e se nel primo atto, la scoperta dell'amore si chiude con un illusorio I love you, che segue l' accorato Ah dont't smile like that, che Ashenbach/Britten vorrebbe dire al suo Tadzio, il secondo atto si chiude in tragedia , entrambi, il vecchio e il giovane, a terra sulla spiaggia: solo che il ragazzo si riprende, dopo una lotta con un coetaneo, ed entra in acqua, mentre Ashenbach muore con sulle labbra il soffio di Tadzio.

Tra il primo e il secondo atto è l'epidemia di colera che investe la Serenissima a suggellare simbolicamente dove porterà quel desiderio insano, insano perché impossibile, anche se nutrito di sogni e di intenzionalità creative, non perché colpevole. Ma la grandezza di Britten è, naturalmente, la novità e la bellezza stregante, avvolgente della sua musica, perfino nei suoi minimali pianissimi, con echi che vanno da Stravinskij a Verdi, da Mussorskij a Berg (penso all'episodio col barbiere), all'uso magnifico di una strumentazione che varia a secondo i soggetti: per esempio, percussione, arpa e pianoforte seguono il declamato lirico di Aschenbach, mentre Tadzio e i suoi amici sono connotati dai suoni del gamelan di Bali.

Insomma una musica che incanta e su cui vorrei poter dire di più, come desta ammirazione questa straordinaria regia di Deborah Warner, indubbiamente la più bella che abbia mai vista della difficile Death in Venice, i cui cambiamenti di scena obbligano a soluzioni inventive ingegnose. Basta pensare con quale abilità e pochi oggetti riesca a rendere gli splendori Belle Epoque dell'Hotel des Bains, e gli struggenti episodi dei giochi di spiaggia, e i miasmi delle calle veneziane.

Al successo ha contribuito il bravissimo protagonista, il tenore John Graham-Hall, al contempo ambiguamente von Ashenbach e Britten stesso, e quel che conta magnifico attore e cantante. Il resto della compagnia non era da meno: la smagliante direzione del giovane Edward Gardner, le stupende coreografie di Tom Pye, la bravura del ballerino Alberto Terribile, allievo sedicenne della Scuola di ballo scaligera, e di tutti tutti gli altri, troppi per citarli uno ad uno. Quindi un grande successo.

P.S Una piccola osservazione riguardo alla traduzione, vista e rivista: novelist in inglese non è novelliere, che si dice story-teller casomai, ma romanziere (infatti novel vuol dire romanzo).

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di piero gelli

(13:18 - 13 mar 2011)


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